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Il teatro Verdi per una sera si è trasformato in una selva notturna di ombre inquietanti, di luce e suoni, dove smarrirsi e ritrovarsi.

L’artista era Vinicio Capossela, perchè è difficile definire in altro modo un uomo della complessità, si è esibito sul palco del teatro davanti ad un pubblico composto ma carico di entusiasmo.

Irriconoscibile nel volto, tra-vestito con mantelli, piume e copricapi che rimandano a figure misteriose delle favole.

Il tour Ombra. Canzoni della cupa e altri spaventi” sta girando l’Italia ha toccato Firenze.

Da una costola del lavoro “Polvere”, viene alla luce l’album “Ombra”. Una riposta alla troppa luce che quotidianamente abbaglia gli uomini. Luce artificiosa, luce digitale, finta, accecante e che ci tiene in superficie, in un galleggiamento indolore quotidiano.

Non è un album come un altro, richiede il suo tempo per essere metabolizzato e richiede anche molto ascolto per calarsi nella sua completezza.

La Cupa non è altro che una contrada oscura dove c’è poca luce e nella credenza popolare era infestata da visioni e fantasmi. Qui tra campi, ferrovie, paesi abbandonati, desideri nascosti, fatalità, donne e fame, divino e mistico, donne pie e igiustizie: il sud contadino prende vita e si lega alla musica, tra archi, blues, strumenti del folk che provengono anche da terre lontane (spagna, grecia, ecc).

Capossela si mostra senza apparire, in un gioco costante di ombre che ammpliano adesso la sua silhoutte per poi rimpicciolirsi, come a volerci dire che siamo ombre di se stessi e tutto dipende da quale luce mostriamo. L’album è un lavoro di intensità, come sempre ci regala il cantautore, che esce da ogni schema.

Un uomo che possiede una cultura vasta, che gli permette di navigare ogni tema con sicurezza, citazioni e letture interessanti si ritrovano spesso nei versi delle sue canzoni. Capossela diventa un Caronte che però vuole trasportare gli spettatori al di là dell’inferno dove vivono, affogati nella tecnologia che annichilisce l’animo e l’intelletto, verso una luce nuova: quella della consapevolezza.

Non è solo concerto, ma un vero e proprio spettacolo nello spettacolo, dove c’è un continuo susseguirsi di giochi d’ombra attraverso strani marchingegni, proiezioni fantastiche che sembrano addiruttura irreali. Al centro lui, il suo pianoforte e una stregua di musicisti con strumenti ad arco e corde per lo più. Suoni sconosicuti ma che nella musica di Caposella sono la naturalezza. Le figure cantate provengono dalla tradizione folkoristica della cultura popolare, che alla fine non sono altro che ciò di più intimo si cela dentro l’uomo. Infatti nell’ascoltare il suo album ci sembra di intraprendere un viaggio in un mondo sconosciuto ma non è altro che ricercare se stessi per scoprirsi nella profondità del proprio io, ma non solo, è un viaggio alla ricerca della nostra cutura italiana legata a tradizioni che stiamo perdendo e dimenticando nel conformismo mentale. Lui ha attinto moltissimo dalla terra d’origine dei genitori: l’Irpinia, anche se è nato e cresciuto in Germania, non ha mai perso il legame con questa terra. Terra da cui lui ha attinto il materiale della tradizione orale per creare “Ombre”.

Punto focale è la presenza marcata della componete “femmina” all’interno delle sue canzoni, figura che NON manca di esaltare e ricordare quale centro di vita.

 

Come dice lo stesso Caposella “La cosa interessante dell’ombra anche nella vita è fare caso al rovescio delle cose: un ribaltamento del punto di vista. Oggi facciamo poco caso all’ombra, abbiamo gli occhi sempre impegnati a vedere le cose in luce”.

 

Nella seconda parte, il concerto prende la via dei brani più vecchi e noti, per tornare sui suoi passi con “Il treno”.