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Il brusio dell’attesa mentre la sala si riempie un pò alla volta.

I palchi prendono vita come tante piccole celle di un alveare.

Il sipario così pesante, sigilla il palco con tutto il peso di una stagione teatrale che va concludendosi. E si fa vivo nel suo drappeggio rosso porpora. Il colpo d’occhio entrando nella sala cade lì, senza ombre, nel suo essere illuminato come fosse un elemento scenico sul palco. E in un attimo si scrolla di dosso la polvere.

Il sipario, elemento fondamentale a teatro come nella vita: si apre per meravigliarci e si chiude per congedarci.

Il pubblico seduto, il buio nella sala. Una frazione di secondo e prende il via lo spettacolo.

Siamo a Napoli, il Teatro nel teatro. Dal mare si arriva al Teatro, attraverso le esperienze che segnano uomini e donne restando però sospesi in uno spazio apolide.

Una cornice di lampadine incastona la scena come in una commedia a Broadway negli anni 20.

Sul palco la vitalità di Massimo Ranieri e di un cast giovane ma artisticamente maturo, che non si risparmia un minuto tra canzoni in napoletano, danze e malinconie.

Lo spettacolo è dedicato e costruito intorno a Raffaele Viviani, attore, cantante, compositore e commediografo campano vissuto nella prima metà del Novecento. Non è il primo spettacolo che Ranieri-Scaparro dedicano alla figura dell’artista, dopo l’esperienza «Vivani Varietà». Viviani voleva accentuare attraverso canti, parole e musiche quel ricco substrato culturale che ribolliva nella Napoli dei quartieri, quella scissa tra la ricchezza del Varietà europeo e la pesantezza immobile del sud.

Massimo Ranieri e Maurizio Scaparro affrontano insieme ancora una volta il grande drammaturgo Raffaele Viviani che con le sue poesie e musiche rendeva omaggio alla sua Napoli, descrivendola con realismo seppur con lo sguardo ironico e innamorato, attraverso sogni e delusioni di una grande città, quale era ieri e come è oggi. Uno spettacolo che ci mostra la Napoli di cento anni fa, quella fatta di emigranti, zingari, pescatori, gagà, cocotte, prostitute e tutto quel mondo della strada che vive per strada. Spaccati di umanità e collettività che mostrano quanto l’artista fu coinvolto da questo modus vivendi. I personaggi sono figure drammatiche, comuni, che non nascondono le loro miserie e la tragicità della loro esistenza, anzi, attraverso il ridere, il cantare e il ballare ci si scopre nelle proprie debolezze, ci si spoglia per mostrarsi nudi nelle fragilità dell’abbandono, della povertà, della solitudine, del penoso vivacchiare stando alla sorte imprevedibile.

Uno sguardo sui personaggi, tra gli emigranti che non hanno mai smesso di sdradicarsi dalla loro città per andare a cercar fortuna e dignità anche in terre lontane. Le vicende di tantissimi italiani di ieri e di oggi che sono uno spaccato reale della nostra nazione. E chi espatria non lo fa mai a cuor leggero, ma con il dolore del distacco e dell’abbandono. I guappi uomini senza arte nè parte, codardi e meschini, alla ricerca di una identità e di un lavoro normale, che si vendono alla malavita, diventando mariuoli, violenti, camorristi, magnaccia e sfruttatori anche essi, risultato di una società senza regole morali e leggi, dove l’unico comandamento è quello che detta la strada.

Protagoniste nella vita quotidiana e nelle opere di Viviani sono le donne, nella loro sincerità disarmante, popolane nella dura vita di strada, semplici, bagnate di sensualità esplicita e intima sofferenza. Donne senza fronzoli amorosi perchè l’amore non riempie le pance affamate, o le tasche vuote. Solo “l’amore che si fa” permette di andare avanti in questo mondo dal realismo crudo. Sono donne di sempre: sarte, lavandaie, venditrici ambulanti, che suscitano amore e desiderio concreto, vissuto all’aperto sotto il sole o vicino al mare, ma c’è anche quell’amore fatto di prostitute in cerca di un amore struggente che plachi i dolori delle ferite dell’anima, alla ricerca di calore con l’illusione di avere al fianco un uomo in grado di proteggerle.

Storie di ieri, di oggi e di domani rese vive dalle violenze, da famiglie mai state famiglie, emigrazione, disperazione e povertà, ma al tempo stesso le parole le musiche e la poesia riescono a lasciare quell’alone di irriverente e beffarda ironia.

Teatro al Porto affronta temi che possono benissimo avere una chiave di lettura attuale: la crisi economica e la ricerca di un lavoro, gli emarginati della società, il clientelismo all’italiana, l’emigrazione e l’immigrazione fenomeno di cui il mar Mediterraneo tanto caro a Scaparro è stato Teatro da tempi ancestrali. Ovviamente non possiamo ritrovare e trovare risposte in questa commedia proprio perchè sono drammi esistenziali senza via d’uscita, che continueranno ad esistere e a insistere nelle vite di chi sopravvive.

Trama: siamo sul finire degli anni venti, una compagnia teatrale allestisce, proprio nel Teatro del Porto, un ultimo spettacolo, dedicato alla penisola prima del viaggio verso il SudAmerica; dopo i timori e le speranze di attori e musici per la nuova tournée americana, prende dunque avvio la performance. Interamente cantato con orchestra dal vivo perfetta nell’accompagnare gli assoli a ritmo incessante, un’insieme di brani della cultura partenopea si avvicendano senza sosta (e senza prendere fiato). Il testo lascia molto spazio alla colonna sonora è affidata all’orchestra, inserita in una scenografia posta ai piedi del palco, dove gli orchestranti sono anche attori e rimanda con la memoria ai cabaret europei e sale di varietà, tipiche degli anni Venti. Le sequenze dedicate alla recitazione sono pochissime: qualche trovata divertente si alterna tra una nota e l’altra per far trovare il riso agli spettatori. Massimo Ranieri, con un fisico agile e asciutto, è il protagonista indiscusso: balla, canta, sgambetta. Un vero one man show che da solo tiene la scena. UN pò assente è la drammaturgia, il canto e il ballo sono indiscutibili, bravissimi tutti gli attori del cast a immedesimarsi nelle movenze e nell’espressività tipica dei scugnizzi e mala femmene. Il lavoro di Maurizio Fabretti (disegno luci) è strepitoso: occhi di bue e una selezionata gamma di colori da avanspettacolo, silhouette e ombre sul fondale che altro non è che un fondo grigio, degna di nota la grata a simboleggiare le sbarre di una prigione.

Il pubblico che si perde nel dialetto napoletano,può cercare di stare al passo attraverso le traduzioni delle canzoni cantate proiettate su uno schermo posto in alto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Teatro del Porto dal 23 al 28 maggio 

 

con Massimo Ranieri, Ernesto Lama, Angela De Matteo, Gaia Bassi, Roberto Bani, Mario Zinno, Ivano Schiavi, Antonio Speranza, Francesca Ciardiello

e con Ciro Cascino (pianoforte), Luigi Sigillo (contrabbasso), Donato Sensini (fiati), Sandro Tumolillo (violino), Giuseppe Fiscale (tromba), Mario Zinno (batteria)

elaborazioni e ricerche musicali Pasquale Scialò

scena e costumi Lorenzo Cutùli

disegno luci Maurizio Fabretti

coreografie Giorgio De Bortoli

regia Maurizio Scaparro

produzione Compagnia Gli Ipocriti