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Impenetrabili torri d’argento III

Guido, l’altro amico di Dante

In via dei Calzaiuoli all’incrocio con via Porta Rossa sorge ancora oggi il Palazzo dei Cavalcanti, uno dei pochi edifici medievali della strada che conserva il suo aspetto originale, scampato ai lavori di adeguamento che interessarono l’intera arteria commerciale del centro cittadino fra il 1842 e il 1844 (e da non confondere con gli sventramenti che dettero vita all’attuale piazza della Repubblica. (Leggi l’articolo: Sapete quale era il primo nome di piazza della Repubblica a Firenze? e Il Mercato centrale: storia della Firenze che cambia volto). Qui sorgevano fin dalle origini le case e le torri di quella famiglia dei Cavalcanti che in Guido, filosofo, poeta e massimo rappresentante dello Stilnovo, ebbe il suo rappresentante più celebre.

La Firenze di Cavalcanti

La casa dove nacque Guido doveva avere un aspetto diverso da quello attuale (l’edificio come lo vediamo oggi risale alla metà del Trecento. Leggi l’articolo: Come era la città di Firenze ai tempi di Dante?), ma qui, tra i palazzi del potere comunale e le case delle altre potenti famiglie fiorentine sempre in lotta fra di loro – i Cerchi, gli Adimari, i Donati, gli Alighieri –, Guido deve aver passato la maggior parte della sua tormentosa vita e aver stretto legami saldissimi con i suoi concittadini del Duecento.

“Il primo de li amici miei”

Guido Cavalcanti, un’altra “torre d’argento” fra quelle che simbolicamente adornano la città di Firenze, un altro poeta, un fiorentino, un uomo che in una città vivacissima e potente seppe dividere la propria vita fra la politica, la poesia e la riflessione filosofica. Il “primo de li miei amici” come lo chiama Dante, il capo riconosciuto di quella compagnia di poeti che conosciamo con il nome di Stilnovo e che a Firenze fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento aveva come obiettivo della propria poesia l’adesione totale alle leggi di Amore.

I “Fedeli d’Amore”

“Fedeli d’Amore”: così chiamavano loro stessi i poeti stilnovisti. Amore era per loro un vero e proprio signore, un padrone, una legge ineludibile che poteva declinarsi in affetto, desiderio, lode per la donna amata, ma che rappresentava anche l’incarnazione di una forza invisibile, potentissima, l’unica in grado di cambiare gli uomini e di renderli davvero nobili.

L’amore tragico di Guido

Nelle poesie di Cavalcanti l’esperienza d’amore assume una dimensione totale e radicale: è l’unica realtà in grado di esaltare al massimo grado l’identità e le capacità dell’individuo, ma è allo stesso tempo una condizione devastante e tragica, impossibile da controllare razionalmente. Ed è su questo punto che i due amici, Guido e Dante, non si trovarono d’accordo: per l’Alighieri l’amante non deve fermarsi alla disperazione, ma tendere ad obiettivi più alti. Per Guido invece essere fedele di Amore significa accettarne le sconvolgenti conseguenze di disperazione e disgregazione, uno stato che può addirittura condurre allo sdoppiamento della personalità, alla disgregazione di corpo e anima.

Amici o nemici?

Inaccessibile il vero motivo della fine dell’amicizia fra Dante e Guido, non sempre in sintonia nelle questioni poetiche, ma sempre compagni nella loro militanza intellettuale: un’amicizia, la loro, nata grazie alla poesia, coltivata grazie alla poesia ma rovinatasi forse per colpa della politica. Guido condivideva l’integrità e la propensione al conflitto dei suoi concittadini, ma vi univa un’indole agguerrita e violenta.

Protagonista nel 1300 di una brutale aggressione ai danni dell’odiato Corso Donati, capo della fazione politica avversa, Guido fu condannato al confino e costretto a fuggire da Firenze per rifugiarsi a Sarzana, dove si ammalò gravemente di malaria: poco dopo essere riuscito a tornare in città, morì. L’amico Dante, priore quell’anno, ma soprattutto sposo di una Donati, aveva firmato l’atto di condanna.

Una Firenze da thriller

Una città meravigliosa, la Firenze di Dante, ma allo stesso tempo violenta e cupa, degno teatro di un moderno thriller. In una città così, anche l’incontro con la donna amata, anche un semplice “colpo di fulmine”, poteva rappresentare un’esperienza distruttiva, una vera e propria aggressione nelle parole di Guido Cavalcanti: “La forza di Amore che mi ha distrutto è venuta fuori dai vostri occhi: mi ha lanciato una freccia dritta nel fianco. Il colpo è giunto diretto, al primo lancio, cosicché l’anima si è svegliata e tremando di paura ha visto nel fianco sinistro il cuore ormai morto” (Voi che per li occhi mi passaste il core, vv. 9-14).

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto

da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:

un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ‘l colpo al primo tratto,

che l’anima tremando si riscosse

veggendo morto ‘l cor nel lato manco.