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A margine della presentazione del suo ultimo romanzo “L’ultimo singolo di Lucio Battisti”, tenutasi presso Il Convitto della Calza e promossa dal circolo Nazione Futura – Firenze, lo scrittore romano Adriano Angelini Sut ha concesso un’intervista a Sei di Firenze se.

La città di Roma è uno dei protagonisti “metafisici” del tuo romanzo. Nasce, cresce e si evolve insieme ai personaggi. Da dove nasce questo bisogno di raccontare la tua città e di farla muovere insieme agli altri protagonisti?

Nasce dal bisogno impellente di raccontare una città che è cambiata sotto i miei occhi ad una velocità spaventosa. Roma, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, non è più la stessa. La città è peggiorata. Così, spinto dalla rabbia e dalla nostalgia, ho deciso di ridarle un’anima, raccontando la Roma che io ho visto è conosciuto. Chiaramente io non ho vissuto nè negli anni ’50, nè negli anni ’60, ma mi sono documentato e ho ascoltato numerose testimonianze. Ho deciso di partire dall’immediato dopoguerra, dalla ricostruzione post bellica. Quando Roma si rialza e ritorna una città florida. Ho deciso di raccontare il suo riscatto.

Secondo te Roma ha un futuro? Può riprendersi e uscire dal baratro?

Roma ha preso una deriva difficilmente sanabile. Io non so come si potrà uscire da questo pantano. E’ imbarazzare camminare in mezzo alla spazzatura, a viali coi marciapiedi ricoperti di foglie che nessuno spazza, buche sull’asfalto che nessuno ripara. E’ difficile vedere una via d’uscita in fondo al tunnel. Ovviamente ho la speranza che cambi. Non so veramente che dire, non so neanche se tornando a nuove elezioni e cambiando giunta possa cambiare qualcosa. Sicuramente questa deriva ha fatto emergere molte contraddizioni. Come abbiamo visto, le famiglie rom a Roma non sono solo quelle che vengono a chiederti le elemosina ma sono famiglie malavitose potenti e pericolose e con loro vi è un mondo sottomarino di criminalità che sta bloccando la città. Non si sa come uscirne.

Un altro “protagonista” del tuo romanzo è la famiglia. Tre famiglie tra loro diversissime e descritte con precisione: la famiglia dei palazzinari romani, la famiglia della comunità ebraica e la famiglia di immigrati abruzzesi. Come ti sei documentato per descrivere queste tre famiglie in modo così preciso?

Mi sono basato molto sulle mie esperienze personali. I miei sono di origini abruzzesi, due dei miei quattro nonni erano abruzzesi e in Abruzzo ho passato molto tempo della mia infanzia. Ovviamente mi sono anche dovuto documentare, soprattutto per quanto riguarda il mondo ebraico. Per quanto riguarda la famiglia dei palazzinari romani, posso dirti che mi sono basato sia sulle esperienze personali, ma bisogna dire che la borghesia romana è sempre la stessa. E’ già stata abbondantemente raccontata da libri e film.

Il terzo protagonista “metafisico” del tuo romanzo è la musica. La musica nel tuo romanzo ha diversi volti, soprattutto quello di Lucio Battisti. Che importanza riveste la musica nella creazione di un tuo romanzo? Che cos’è per te la musica di Lucio Battisti? E cos’ha, secondo te, la musica di Lucio Battisti in più rispetto a quella dei suoi contemporanei?

La molla che mi spinge a scrivere i miei romanzi è la musica. Se non ci fosse la musica io non comincerei neanche a scrivere. E’ come se la musica mi evocasse qualcosa che devo scrivere assolutamente. Per questo romanzo è successa la stessa cosa. Io stavo ascoltando “a manetta” Don Giovanni di Lucio Battisti e stavo ripercorrendo tutto il periodo della sua collaborazione con Pasquale Pannella. Era anche il periodo dopo le dimissioni di Marino da sindaco di Roma, un momento in cui la città ha avuto una sorta di slancio e caduta allo stesso tempo. Ho sentito il bisogno di parlarne e allora ho avuto una folgorazione, mettere insieme Roma e Lucio Battisti. Questo perché Lucio Battisti andava a rompere il solito cliché sulla musica romana fatta solo di Venditti e De Gregori. Ogni mio romanzo ha una sorta di sua colonna sonora.

Parliamo ora dei protagonisti veri e propri. Un ragazzo che sceglie di impegnarsi politicamente ma nella destra radicale. Un ragazzo di famiglia ebraica il cui fratello, acceso sostenitore dello stato di Israele, andrà a combattere nelle file dell’esercito israeliano. E infine un giovane aspirante musicista, che decide di non fare il cantautore impegnato, ma decide di sperimentare sulle orme di una figura, allora scomoda e controversa seppur innocua, come quella di Lucio Battisti. Personaggi coraggiosi insomma. Potrebbe allora, il tuo romanzo, dare una scossa alla cultura e all’editoria italiana e svecchiarla?

La mia risposta è un no secco. Quello che però può fare è “entrare a gamba tesa”, come ha detto il mio amico e critico letterario Gianfranco Franchi, all’interno di una concezione narrativa ideologizzata e monopolio di una certa sinistra. Può anche, forse, dar linfa a un ambiente narrativo alternativo e di resistenza. Un ambiente che è molto vivo rispetto all’ambiente mainstream e che può dargli filo da torcere. Ci si può provare.

Di questi tre personaggi, che tu segui passo dopo passo, vi è un personaggio a cui ti senti caratterialmente affine e un personaggio che ritieni ti sia riuscito più di altri?

Il personaggio a me più affine è Natale De Santis e il personaggio che penso di aver creato meglio è Romano Antei. Tuttavia vi è parecchio di me anche in Simone, il ragazzo ebreo che va ad arruolarsi in Israele. Non mi sono sdoppiato, mi sono triplicato. Nei vari personaggi vi sono dei riferimenti autobiografici. Inoltre ho cercato di idealizzare e umanizzare tutti i personaggi. Anche quelli, diciamo più negativi. Romano, ad esempio, fa scelte che io considero negative e sbagliate, come quella della lotta armata e del terrorismo ma di lui rappresento il suo modo di essere uomo e di essere sincero.

Tra i mille volti che la musica assume nel tuo romanzo, vi è anche quello di Jim Morrison. Il re lucertola che, attraverso la droga, parla a Romano come un diavolo tentatore. Perché hai scelto di fare di Jim Morrison questa ombra nera?

Perché a me piace molto provocare. Jim Morrison è sempre stato visto, da una certa parte politica, appunto come idolo e come sciamano. In realtà, negli anni ’70, molti ragazzi della cosiddetta destra sociale facevano uso di droghe esattamente come quelli di sinistra ma non lo dicevano. Avevano gli stessi miti dei ragazzi di sinistra. Un po’ come oggi Casapound, che prende come mito la figura di Che Guevara e ci fa la conferenza. Mentre quelli di sinistra andavano a Parco Lambro a farsi le canne e a suonare “la loro musica”, quelli di destra andavano ai Campi Hobbit e più o meno ascoltavano la stessa musica (poi magari preferivano i Jethro Tull e la PFM). Jim Morrison rimaneva un cavallo di battaglia per entrambi, solo che a destra non lo dicevano.

Ho usato Jim Morrison per dire che anche il ragazzo di destra si drogava, che la droga ha fatto molti morti anche tra i ragazzi di destra.

Tu nel panorama musicale italiano vedi qualche guizzo?

Mi sono messo ad ascoltare i trapper per disperazione. Io non riesco a sentire il cantante pop mainstream che può avere anche una bella voce, stile Mengoni. Ma non riesco a trovare gruppi rock underground particolarmente notevoli, ci sono gruppi che non mi propongono nulla di nuovo o originale. Allora ho deciso di ascoltare i trapper, ho abbandonato il pregiudizio e ho trovato cose molto originali. Ti faccio un esempio, a me Sfera Ebbasta non dispiace, non mi dispiace neanche Vegas Jones, ma costoro hanno dei padri putativi che comunque sono più bravi di loro, ossia gli afroamericani: Kendrick Lamar, Drake o XXXTentacion. Non vedo altro. Per carità rispetto Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti che mi fa la canzoncina che magari canticchio e mi rimane in testa ma poi vado a cercare altro.