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Impenetrabili torri d’argento XVIII

Per un vero fiorentino, qual è il panorama più bello della città? Con quale immagine pensa di poter rappresentare al meglio la sua Firenze? Quale cartolina spedirebbe per descrivere la città?

La veduta dalla collina di Fiesole forse? Con l’emiciclo dei colli che abbraccia di verde i tetti rossi; oppure la veduta da Bellosguardo? Con l’imponente facciata di Santa Maria del Fiore che svetta davanti alla mole della cupola. Oppure ancora, la vista dal piazzale Michelangelo?

Vedute di Firenze

Firenze è stata fin dal Cinquecento una delle città più rappresentate al mondo: la bellezza della sua posizione geografica, al centro di una cintura di splendide colline e di una ricca campagna, ha ispirato centinaia di pittori: nei loro quadri ci appare una città meravigliosa che aveva fatto dell’armonia fra il centro abitato e il suo contado una cifra caratteristica (quanto poco di questa lunga tradizione è rimasto nei pochi decenni che hanno completamente sconvolto l’immagine della città nel corso del Novecento: e il pericolo di compromettere ancora una volta e in modo irreparabile il fragile equilibrio delle periferie della città è dietro l’angolo di ogni colata di cemento travestita da investimento).

Vasari e hashtag

La moda di immortalare il panorama della città da una delle sue colline non si è mai spenta, dalle pitture di Francesco di Lorenzo Rosselli e di Giorgio Vasari fino agli hashtag di oggi. Ed è proprio se guardiamo le statistiche dei social più diffusi che ci accorgiamo di quale sia la cartolina che secondo i nostri contemporanei è la più rappresentativa della città.

“Volgetevi attorno, ecco il suo monumento”

La medaglia d’oro va infatti alla vista che si gode dal piazzale Michelangelo, vera e propria terrazza aperta sullo spettacolo della città. E se i fiorentini e il mondo possono ammirare tale meraviglia soltanto da quando Giuseppe Poggi progettò i Viali dei Colli, aprendoli sulla città in corrispondenza del Monte delle Croci, la vista che si può oggi godere da quel luogo aveva già guadagnato da tempo una celebrità superiore a quella di tutte le altre vedute.

Commedia, Purgatorio, Canto XII

“Come a man destra, per salire al monte / dove siede la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte, si rompe del montar l’ardita foga / per le scalee che si fero ad etade / ch’era sicuro il quaderno e la doga”.

Dante non è più nelle tenebre infernali; è uscito dall’inferno e si è già avviato nella seconda tappa del suo viaggio ultraterreno: la scalata del monte del purgatorio, il regno dell’aldilà in cui le anime, destinate alla beatitudine eterna, si purificano dei peccati commessi in vita per essere degne di contemplare il volto di Dio.

Si trova nella prima cornice, il primo balzo dell’enorme montagna del purgatorio in cui viene punito il peccato della superbia. Nella parete della montagna sono intagliate delle scalinate, che permettono a Dante e alla sua guida Virgilio di salire il pendio e di incontrare sul proprio cammino le anime di uomini e donne che raccontano a Dante la propria storia.

Ed è proprio nel tentativo di spiegare come sono fatte queste scalinate che Dante utilizza un riferimento ad un’esperienza concreta, a quello che doveva essere un luogo frequentatissimo al suo tempo. “Quelle scale – scrive Dante –, che stavamo percorrendo, assomigliavano esattamente a quella scalinata che a Firenze conduce dalla città alla chiesa di San Miniato al Monte, su per il pendio del Monte alle Croci”.

Una strada che oggi è diversa da come la poteva vedere Dante, ma che corrisponde alle attuali via del Monte alle Croci e via dell’Erta Canina, appena fuori dalla Porta San Miniato. Così la descriveva un commentatore di poco più giovane di Dante: “Uscendo dalla porta per andare a San Miniato si sale alquanto per una sola via. Dappoi si divide in due vie. Et quella, che rimane da man destra a chi sale, ha le scalee”.

“Salendo al santo senza testa”

Nell’ultimo tratto prima di arrivare ad una delle chiese più antiche della città, che da mille anni controlla dall’alto Firenze e le sue colline, vi erano già nel Medioevo delle vere e proprie scale, simili a quelle che ancora oggi salgono al sagrato della chiesa, ripide e scoscese.

E Dante nel suo poema, con la solita perizia nel tratteggiare con pochissime parole e scarni elementi potenti immagini, apre davanti ai nostri occhi il panorama sulla città di Firenze. “Sopra Rubaconte” significa proprio questo: la chiesa di San Miniato si eleva proprio sopra il ponte a Rubaconte, ovvero l’attuale Ponte alle Grazie.

Così il viaggiatore medievale che salendo a san Miniato si fosse voltato a guardarsi indietro, avrebbe visto uno squarcio di paesaggio tipico, oggi come ieri, di Firenze. Non proprio uguale ad oggi in realtà.

Ponte a Rubaconte

Il ponte fu, come scrive Dante, costruito a partire dal 1237 dal podestà Rubaconte di Mandella, da cui prese il nome e fu fino all’agosto 1944 il ponte più antico di Firenze, addirittura più antico di Ponte Vecchio (che nel suo aspetto attuale è datato al 1345). Aveva resistito a tutto: inondazioni, invasioni, saccheggi, riordinamenti e risanamenti, compreso quello degli anni Settanta dell’Ottocento che abbatté le caratteristiche casette costruite sulle pigne, in corrispondenza dei piloni, ognuna delle quali ospitava una piccola comunità di religiose (prima le Murate, poi le Romite del Ponte).

Non resistette alle mine tedesche; le sette arcate medievali saltarono in aria per la scelleratezza di paurosi e criminali occupanti che così spazzarono via in pochi secondi sei secoli di paesaggio.

Salendo a San Miniato e al piazzale Michelangelo possiamo ancora oggi immaginare di star percorrendo lo stesso cammino che sette secoli fa percorse Dante, per giungere poi ad ammirare lo stesso paesaggio; una città diversa certo, con ponti ricostruiti e lungarni rifatti, ma sempre solcata dallo stesso amato Arno.