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Impenetrabili torri d’argento VII

Mark Twain è stato uno dei più famosi scrittori dell’Ottocento americano. Giornalista, divulgatore, viaggiatore e pilota di battelli a vapore lungo il leggendario Mississippi prima che autore di romanzi, Twain è riuscito a raccontare in pagine vivide e fresche l’America più profonda del suo tempo, un’America provinciale e arretrata, un’America fatta di giovani uomini in cerca di obiettivi, fra i dolori della Guerra di Secessione, un’industrializzazione spesso feroce e i sogni di una vita migliore, magari nella corsa verso il selvaggio West.

Tom Sawyer e Huckleberry Finn

Forse non tutti hanno letto i suoi romanzi che sono spesso relegati nelle collane di libri dedicati all’infanzia: tuttavia ‘Le avventure di Tom Sawyer’ e ‘Le avventure di Huckleberry Finn’, i suoi capolavori, hanno formato non solo la coscienza letteraria di generazioni di americani ed influenzato tutta la letteratura d’oltreoceano, ma hanno anche tratteggiato l’immagine che gli europei hanno a lungo avuto dell’America.

Il “primo vero scrittore americano”

I suoi racconti, animati sempre da un profondo senso di giustizia, mettono in ridicolo americani velocemente arricchiti, pronti a sacrificare morale, umanità e buonsenso, per una stupida e smodata sete per il potere e per il benessere. Ma le pagine di Twain restano leggere, adatte anche al pubblico più semplice, in cui la giovialità e la comicità delle situazioni e dei personaggi descritti riesce a mitigare il moralismo qualche volta anche troppo evidente.

Inventiva narrativa e linguistica, profondità filosofica, spirito umoristico, impegno civile e vitalità sono i maggiori punti di forza che gli autori americani successivi riconoscono alla scrittura di Twain: due giganti della letteratura americana del Novecento, William Faulkner ed Ernst Hemingway, arrivarono addirittura a riconoscere nelle ‘Avventure di Huckleberry Finn’ l’origine dell’intera letteratura americana.

Big River e Old World

Ma Twain non nacque come scrittore. Samuel Langhorne Clemens (questo il suo vero nome), nato in Florida nel 1835, giovane orfano di padre, dovette lavorare prima come tipografo, poi come piota di battelli a vapore sul fiume Mississippi, per guadagnarsi da vivere. Nel 1866 riuscì, come ogni americano rispettabile e che avesse a quel tempo velleità artistiche, a compiere un viaggio in Europa durante il quale visitò soprattutto Francia e Italia.

Un “innocente all’estero”

Del Vecchio Continente Twain raccontò soprattutto le frivolezze e le contraddizioni, criticando il culto decadente e stanco, pomposo e stantio, per l’antico, la storia e un passato glorioso del quale non riusciva a comprendere né il senso né l’utilità. In Italia non solo rimase scandalizzato dalla decadenza generale e dalla superstizione cui la Chiesa cattolica costringeva a suo parere una massa ignorante e maleodorante, ma anche dall’impossibilità di programmare qualsivoglia soluzione, qualsiasi futuro: “Questo paese è in bancarotta. Non c’è una solida base per opere grandiose”.

Firenze: km di dipinti

Il racconto del suo viaggio, pubblicato nel 1869 con il titolo Gli innocenti all’estero, gli guadagnò un grande successo e l’inizio della carriera da scrittore e romanziere. Tuttavia pur avendo dedicato pagine dure e critiche all’Italia, Twain tornò nella nostra penisola più volte dopo il suo primo lungo viaggio.

A Firenze – criticata per i chilometri di dipinti che era stato costretto ad attraversare, prigioniero di una guida urlante e molesta che aveva soprannominato “il pappagallo umano”, e nella quale non aveva potuto sopportare la boria degli intenditori d’arte che volevano fargli credere che ogni statuetta che vedeva fosse opera di Michelangelo (come effettivamente era) – Twain tornò nel 1893 e nel 1903, soggiornando su quella collina di Settignano che già da tempo era divenuta rifugio per scrittori e artisti, poeti e attori. Lì l’Americano godette del clima mite, si dedicò allo studio della lingua e passò alcuni anni in compagnia della moglie, che proprio a Firenze morì.

“L’immagine più bella del pianeta”

Insomma un tipico americano, come tanti che Firenze ha dovuto imparare a conoscere nel corso della sua storia recente: un po’ ignorante, certamente troppo sicuro di sé e delle sue convinzioni, un po’ incolto e profondamente incapace di capire lo spirito europeo, di conoscerne le idiosincrasie e le contraddizioni intime e profonde, stratificate in secoli e secoli di storia tormentosa e spesso non lineare. Ma un americano, come tanti americani, che non poteva restare immune dal fascino che emana l’Europa e che a Firenze in particolare ha attratto da sempre stuoli di turisti yankee.

Così Twain descrive la nostra città in occasione di uno dei suoi viaggi in Italia (poco dopo aver giustificato candidamente la sua freddezza di fronte ai capolavori degli Uffizi, perché in America storia dell’arte “non viene insegnata”): “Lontano nella valle giaceva Firenze, rosa, grigia e bruna, con l’antica enorme cupola della cattedrale dominante nel mezzo come un pallone frenato e affiancata a destra dal bulbo più piccolo della cappella dei Medici e a sinistra dall’aerea torre di Palazzo Vecchio; tutto in giro all’orizzonte una frangia di marosi di alte colline azzurrine, cosparse di innumerevoli ville bianche come neve. Dopo nove mesi di familiarità con questo panorama, io penso ancora, come al principio, che questa è l’immagine più bella del pianeta, la più incantevole a guardarsi, quella che più appaga gli occhi e lo spirito”.