Impenetrabili torri d’argento XIV
Sulle tracce di Dante I
L’occhio dei fiorentini viene abituato fin dall’infanzia alla dimestichezza con alcuni simboli della città, che ne rappresentano la storia, ma anche l’anima più profonda. Basta passeggiare per le strade del centro ed alzare gli occhi un po’ al di sopra delle vetrine luccicanti dei negozi o dei banconi affollati delle botteghe di cibo da strada per accorgersene.
L’Iris dei fiorentini
Certo, il giglio: sui palazzi comunali, sugli esercizi pubblici, campeggia solenne il grande giglio che rappresenta la città da secoli e cui i fiorentini sono legati con orgoglio. Ma chi volesse ritrovare questi gigli sulle facciate dei palazzi fiorentini o agli angoli delle strade si accorgerebbe che lo stemma cittadino non è così facile da rintracciare. Un altro segno è ben più presente, ben più ingombrante: ma non ci facciamo caso, abituati, come siamo, a vederlo ad ogni passo, fin da quando passeggiavamo per il centro mano nella mano con i nostri genitori.
“A sei palle poste in cinta”
Le palle dei Medici occupano letteralmente ogni angolo della città: non c’è strada, vicolo, piazza di Firenze, che non ospiti lo sferico stemma dei Medici, in forma anche ridotta, sopra un tabernacolo, o sotto un piedistallo, o che invece non lo veda troneggiare nel bel mezzo di una grande facciata. In due secoli di dominazione diretta della città e in tre secoli e mezzo di controllo più o meno effettivo, i Medici hanno investito un enorme capitale simbolico, ma non solo, per tappezzare la città con l’immagine del loro potere e della loro presenza.
Firenze, la ‘città dei Medici’, quindi. Ma quello stesso fiorentino che, alzando lo sguardo, si è reso conto che la città è piena di palle medicee, e che si è accorto di quanto raramente appaia il giglio, si accorgerà anche di un’altra caratteristica dei muri fiorentini. E non ne sarà stupito.
Lapidi della memoria
Accanto agli stemmi, ai nomi delle strade e alle insegne commerciali, Firenze è fortunatamente ancora una città di targhe e lapidi. Lapidi che ricordano di tutto, circondandoci costantemente in una sorta di corridoio della storia tappezzato di rimandi ipertestuali potenzialmente infiniti, segnali pronti a risvegliare nei passanti memoria, ricordi, curiosità e voglia di saperne di più. Tra le tante lapidi ce ne sono alcune che si richiamano l’una con l’altra: sono grigie, di pietra serena a caratteri chiari. Su di esse non vi sono frasi celebrative, ma versi, stralci di poesia: sono le lapidi con le parole di Dante.
Dante il fiorentino
In tutta la città, le parole del poeta risuonano ancora: sono parole di pietra che, anche quando non sono notate dal chiacchiericcio sottostante, restano lì, a perenne ricordo di un cittadino di Firenze che tanto amò la sua città da finire per parlarne in continuazione nelle opere che scrisse, quando ormai era consapevole che non avrebbe mai più rivisto la sua patria.
“Fiorenza dentro da la cerchia antica”
Le lapidi sparse per la città sono trentaquattro, tutte tratte dal capolavoro di Dante, la ‘Commedia’: furono commissionate dal Comune di Firenze all’inizio del Novecento e per la loro realizzazione furono consultati alcuni fra i più noti e importante filologi e studiosi del tempo. Le terzine dantesche tracciano per le strade di Firenze un ideale percorso tra le vicende dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso raccontando la storia di illustri personaggi e di altrettanto famosi luoghi che Dante volle ospitare nel suo poema.
Non solo ‘figli prodighi’
Si celebra così ogni giorno forse il più grande fra i figli di Firenze: un figlio rinnegato però, segnato dal dolore e dalla ferita non rimarginabile dell’esilio cui la città lo aveva condannato senza indugio. Ma Dante sapeva che sarebbe rimasto legato alla sua città indissolubilmente; la città ci mise più tempo per capirlo, ma infine accettò di buon grado di essere considerata, oltre alle tante cose che è stata – la ‘città del Giglio’, la ‘città dei Medici’ –, anche e forse soprattutto la ‘città di Dante’.
“In terris amenior locus quam Florentia non existat”
A pochi anni dall’inizio dell’esilio, forse mentre stava a Bologna, Dante iniziò a scrivere un trattato nel quale intendeva indagare l’eloquenza del parlare in volgare, ovvero le ragioni e la necessità della letteratura scritta e detta in italiano, non più in latino. Il ‘De vulgari eloquentia’ – questo il nome dell’opera – nelle prime pagine contiene una delle più grandi dichiarazioni d’amore di un figlio per la sua città: è, come ricordavamo, un figlio tradito, offeso, umiliato da una madre che lo ha cacciato, lo ha ridotto in povertà e lo ha privato di tutto, posizione, beni, amici, unità familiare, carriera. Dichiarando che non è ragionevole supporre che la lingua perfetta sia parlata in un singolo luogo, in un’unica città, ma piuttosto che sia una somma calcolata e raffinata di elementi propri più parlate, Dante scrive: “Ma io che ho per patria il mondo come i pesci l’acqua, per quanto abbia bevuto in Arno prima ancora di mettere i denti e ami Firenze al punto che, avendola troppo amata, soffro ingiustamente l’esilio, io devo soppesare il giudizio più con la ragione che col sentimento. E, sebbene per il mio piacere e per l’appagamento dei miei sensi non ci sia in terra luogo più bello di Firenze…”.