fbpx

Impenetrabili torri d’argento XV

The Big Hedgehog

A chi l’avesse osservata dalle colline di Bellosguardo o di Fiesole, la Firenze medievale doveva sembrare molto simile ad un grande istrice addormentato in mezzo alla valle solcata dall’Arno. Non la familiare distesa di tetti rossi, tagliata dal corso contorto delle vie, improvvisamente e inaspettatamente interrotta dal geometrico ed enorme contorno del duomo e della sua cupola, ma piuttosto un ammasso di case, in muratura, ma soprattutto in legno, ammassate le une sulle altre, sopra le quali si elevavano una miriade di torri più o meno elevate, che, in competizione con i campanili delle moltissime chiese, bucavano il cielo della città come un vero e proprio istrice.

“La mia è più alta…”

Torre più alta, potere più grande: le grandi famiglie fiorentine rappresentavano pubblicamente in questo modo il loro prestigio e le loro capacità economiche e politiche. Di torri a Firenze non ne sono rimaste moltissime, e quelle che sopravvivono hanno perso gran parte della loro imponenza, soffocate già a partire dal Rinascimento dalla mole di palazzi via via più moderni.

In una vecchia e famosa poesia dedicata a Firenze, un grande – ma poco noto – poeta, Franco Fortini, paragonava le torri sopravvissute di Firenze alle grandi personalità che avevano reso grande la città per mezzo del loro ingegno, delle loro opere artistiche, letterarie e architettoniche, del loro genio.

E queste ‘impenetrabili torri d’argento’ sono senza dubbio più numerose di quante non fossero le torri di pietra della Firenze medievale: si affollano sullo skyline della storia di Firenze sempre più fitte, mano a mano che si scava nella storia della città.

Torri di pietra e non solo…

Qualcuna delle torri fiorentine vive una doppia vita: quella di vera torre di pietra e quella di torre di memoria, poiché fra le sue mura hanno abitato, in un tempo lontano, alcuni di quegli autori di cui Fortini sentiva la presenza ad ogni angolo di Firenze.

Sono torri antichissime, appartenute alle più importanti famiglie della Firenze medievale i cui membri non furono soltanto coloro che resero la città ricca e conosciuta in tutto il mondo grazie all’arte del cambio e del commercio, ma anche quelli che fondarono la letteratura in lingua italiana, quella letteratura che avrebbe influenzato il mondo e che avrebbe reso Firenze una delle culle della civiltà.

Lapidi fiorentine

Al viaggiatore di oggi non serve sapere in anticipo dove andare a cercarle: basterà aguzzare lo sguardo e fissare gli occhi a circa tre metri di altezza dal corso delle strade ed osservare le mura in pietra dei palazzi per individuarle.

Sono le ‘Lapidi della Divina Commedia’ che, oltre ad indicarci quelle torri, ci parlano dei loro abitanti e ci raccontano la loro storia con le parole di colui che ha reso immortali i loro nomi: Dante Alighieri.

Così sulla torre dei Gianfigliazzi la lapide dantesca ci descrive lo stemma di quella famiglia di usurai con le parole del poeta: “in una borsa gialla vidi azzurro, / che d’un leone avea faccia e contegno”; la torre è ancora oggi ben conservata poco prima del ponte Santa Trinita, vicino all’omonima piazza, ultimo residuo di un vero e proprio impero immobiliare che in quella zona aveva reso la famiglia potente.

Anche la torre dei Lamberti, fra Calimala e piazza della Repubblica, è ricordata grazie all’identificazione dello stemma di famiglia nelle parole di Dante (“le palle dell’oro”). Così anche in Borgo dei Greci, quasi all’incrocio con piazza San Firenze, si ricordano i Peruzzi tramite il riferimento alla ‘pera’, adeguato simbolo di quella famiglia.

Nel primo cortile di Palazzo Vecchio, le parole di Dante ricordano la decadenza della grande famiglia degli Uberti, caduta in disgrazia a causa del troppo orgoglio (“quei che sono disfatti / per lor superbia”); in via dei Tavolini, sono invece ricordati i Galigai, che lì avevano la loro torre e che erano rinomati come cavalieri formidabili e per l’antichità della loro nobiltà (“ed avea Galigaio / dorata in casa sua già l’elsa e ‘l pome”).

Amidei, Della Bella, Buondelmonti, Adimari, Visdomini, Cerchi, Portinari: a tutti questi fiorentini del passato Dante ha dedicato un ricordo, impresso oggi nella pietra delle lapidi. Ai Donati, famiglia legatissima a Dante (Gemma Donati fu la fedele moglie del poeta), ma cui non vengono risparmiate ampie critiche nel poema, sono dedicate ben due lapidi: una ricorda il luogo nel quale si accampò l’esercito dell’imperatore Enrico VII, presso la chiesa di San Salvi, l’altra è posta sui resti della torre di famiglia in via del Corso, ed è dedicata all’amico di Dante, Forese, che il poeta incontra in Purgatorio, non senza commuoversi nel ricordo della loro stretta amicizia: “La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia”.

“Mio figlio ov’è? E perché non è teco?”: sono le angosciose parole di un padre dannato, ma preoccupato per la sorte del figlio di cui non ha notizie da tempo; il padre di Guido Cavalcanti, Cavalcante, chiede con ansia, emergendo dalle tenebre infernali, dove sia suo figlio, all’amico di sempre, il compagno di vita e di lettere. Dante e Guido dovettero essere legatissimi, amici strettissimi, ma separati ad un certo momento della loro amicizia da divergenze filosofiche e forse politiche. Sulle mura dell’antico palazzo dei Cavalcanti in via dei Calzaiuloi, vicino alla chiesa di Orsammichele e quasi in piazza della Signoria, resta una traccia di quell’amicizia e di quella separazione, in ricordo di uomini eccezionali ma che alla fine del Dugento si potevano incontrare semplicemente passeggiando per Firenze: “Ed io a lui: Da me stesso non vegno: / Colui che attende là per qui mi mena, / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.