Impenetrabili torri d’argento XX
Fashion week
Febbraio è stato il mese della moda in tutto il mondo: da New York a Londra, da Milano a Parigi, centinaia di modelle e modelli hanno indossato abiti di tutti i tipi e per tutti i gusti, dalle infinite variazioni sugli intramontabili classici ad improbabili bizzarrie, le più ingombranti e improponibili.
Il fascino dell’inizio e della fine
Le sfilate di moda delle grandi firme di stilisti internazionali sono la punta dell’iceberg di un fenomeno totalizzante, che tutti accumuna e cui tutti siamo sottomessi, d’accordo o meno: perché anche chi non segue le direttive di costume per pigrizia o disinteresse è immerso in un mondo fatto di immagini e di pubblicità ‘alla moda’ con le quali deve fare i conti; per non parlare di coloro che volontariamente vestono all’opposto di ciò che il mercato propone: sono coloro che forse più di tutti contribuiscono a rendere visibile ciò che è ‘di moda’.
Florence ‘branchée’
Passerelle dunque: flash, scatti e corpi ricoperti di stoffe di mille colori e di mille fatture. Senza dubbio un grande spettacolo. Ed anche Firenze partecipa da protagonista a questo carosello di mondanità, vantando una lunga storia di ‘città della moda’, con il suo ‘Pitti’, le sue grandi firme, la sua tradizione di sfilate di qualità e di grandi capacità sartoriali.
Ma c’è stato un tempo in cui né Parigi, né Londra, né Milano, né tanto meno New York potevano gareggiare con la città del giglio riguardo a ‘bel vestire’, lusso, eccentricità: in una parola ‘moda’.
Da Calimala a ‘Pitti’
Dal Duecento a tutto il Quattrocento ed oltre l’aumento esponenziale delle attività bancarie fiorentine aveva attratto enormi capitali, facendo esplodere in città attività commerciali e manifatturiere, prima fra tutte quella tessile, che per tutti i secoli del Basso Medioevo rimase, insieme all’arte del prestito, l’impresa principale di Firenze.
L’Arte di Calimala era la più potente fra le arti fiorentine: i suoi componenti si occupavano dell’importazione di materiale tessile grezzo che, una volta lavorato, veniva rivenduto sotto forma di tessuti di altissimo pregio richiesti in tutta Europa; erano loro i veri arbitri degli equilibri politici cittadini e con i loro soldi erano stati costruiti alcuni fra i più bei monumenti cittadini (la prossima volta che salite alla basilica di San Miniato fate caso a che cosa sormonta la bellissima facciata: vi accorgerete che non è, come ci si aspetterebbe, una croce…).
Anche ai tempi di Dante le strade di Firenze dovevano sfavillare di colori accesissimi, di stoffe pregiate e luccicanti, di donne ricoperte di gioielli, di trucco e di complicate acconciature, di uomini con cinture pregiatissime e con manti costosi. Ma Dante, a differenza di molti sui concittadini dell’epoca e dei nostri giorni, non apprezzava molto tutto questo carnevale.
“A così riposato, a così bello viver di cittadini…”
“Bellincion Berti vid’io andar cinto di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza ‘l viso dipinto”. Sono alcune parole di Cacciaguida, il trisavolo che Dante incontra in paradiso, nel cielo di Marte, tra i beati. È una tappa importante del viaggio ultraterreno di Dante: da questo incontro il poeta ricaverà una descrizione perfetta di ciò che una città dovrebbe essere, di come si dovrebbero comportare i suoi abitanti e di come dovrebbero vivere l’uno con l’altro, senza discordie, senza guerre, in pace e in sobrietà.
È la famosa “Fiorenza dentro da la cerchia antica” che “si stava in pace, sobria e pudica”; un sogno, una idealizzazione che però Dante immagina come reale nelle parole del suo antenato Cacciaguida. E fra le tante immagini di vita quotidiana che vengono evocate c’è quella di Bellincione Berti de’ Ravignani, un nobile e illustre cittadino della Firenze del XII secolo. Cacciaguida ricorda di averlo visto camminare per strada vestito senza nessuna ostentazione del suo rango o della sua ricchezza, ma con un semplice cintura di duro cuoio chiusa da una fibbia non d’argento, né d’oro, non di bronzo, né di gemme preziose, ma di modesto osso animale. E con un’altra pennellata brevissima, ma concreta e realistica, Cacciaguida elogia la moglie di Bellincione, “la donna sua”, che si alza dal suo tavolino da toletta con lo specchio, non agghindata e ricoperta di trucco, ma pulita, sobria, “sanza ‘l viso dipinto”.
“Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande…”
Chissà come Dante avrebbe potuto descrivere i gironi infernali delle passerelle di alta moda del nostro secolo, con i loro eccessi e i loro lussi estremi. Su due cose non possiamo che dargli ragione, anche dopo settecento anni: la Firenze di uomini e donne vestiti semplicemente e senza alcun lusso non è certo la Firenze che conosciamo oggi, fra le settimane di moda alla Fortezza da Basso e i musei griffati di quelli che probabilmente Dante stesso avrebbe definito ‘camiciai’ e ‘ciabattini’ (o qualcosa di simile…). E poi: ciò che disturba negli eccessi della moda è spesso non tanto lo sfarzo dei colori, dei tessuti, degli accessori, ma ciò che ci sta dietro, il desiderio dell’apparenza, la brama di esibire la propria ricchezza, in una parola il ‘denaro’; o meglio, come ci dice lo stesso Dante “la cieca cupidigia che v’ammalia”.