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Si stava meglio quando si stava peggio

Ogni generazione si è sempre sentita dire che i tempi in cui erano vissute quelle dei padri o dei nonni erano state certamente migliori, animate da più sani e ordinati princìpi. La storia forse va avanti da quando Adamo ed Eva hanno iniziato a raccontare quanto era bello ed accogliente il Paradiso terrestre, ma un luogo comune così radicato ha avuto sempre un lato positivo: stimolare la creazione di storie, di immagini, di esempi, di paragoni e di racconti meravigliosi e gustosissimi, che spesso hanno ridisegnato il passato, talvolta ne hanno conservato qualche tratto.

La Firenze di Dante e dei suoi amici, la Firenze del Duecento, non stuzzica soltanto la fantasia dei fiorentini di oggi, ma già per le generazioni immediatamente successive rappresentava un miraggio di nobiltà e di bellezza, di forza e di grandiosità. Ma anche di arguzia e di prontezza di spirito.

Boccaccio e il ricordo dei tempi di Dante

Giovanni Boccaccio raccontò in molte sue opere come doveva apparire la città di Dante, i personaggi che la animavano e gli episodi che si raccontava vi fossero accaduti. Nel Decameron, Firenze compare come teatro di novelle, di imbrogli, di amori, ma Dante non è mai uno dei personaggi. Non accade lo stesso all’amico prediletto del sommo poeta, quel Guido Cavalcanti che doveva aver lasciato a Firenze un ricordo molto vivido della sua personalità, del suo carattere e della sua arguzia (Leggi Come essere amici e poeti nella Firenze del Duecento?).

Le “belle e laudevoli usanze” dei “tempi passati”

Nella nona novella della sesta giornata del Decameron si racconta una singolare vicenda che vede come protagonista proprio Cavalcanti: “Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa…”. Insomma la solita storia: lamentele per una buona abitudine abbandonata, ovvero quella di raccogliersi in festose brigate che con regolarità animavano i quartieri della città organizzando sontuosi banchetti, danze, giostre e tornei. Ma il desiderio di mostrarsi più ricchi e alla moda degli altri non lasciava immuni neppure i fiorentini del Duecento.

Pecunia (non) olet

“Tralle quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto e’ compagni s’erano molto ingegnato di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza cagione”. Guido infatti era rinomato, oltre che per essere un uomo di studio, un grande filosofo, un pensatore impareggiabile (seppure ai limiti dell’eresia: erano noti i sui dubbi sull’immortalità dell’anima e addirittura sull’esistenza di Dio), anche per essere un amico sincero e leale, ma soprattutto per essere ricchissimo e molto generoso con coloro che si guadagnavano la sua fiducia. Più che l’interesse di farsi un nuovo amico, quella brigata aveva annusato l’odore dei soldi con i quali prevedeva di imbastire chissà quali costosissimi divertimenti.

Le ‘arche’ di San Giovanni

Un giorno Guido, uscito di casa e percorso il suo solito tragitto fino alla piazza fra il Battistero e il sagrato dell’antica cattedrale di Santa Reparata – Boccaccio ci descrive un percorso che ancora oggi possiamo immaginare perfettamente: “partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni” –, si era soffermato ad ammirare le arche, ovvero i sarcofagi sopraelevati e spesso coperti, che in quel tempo sorgevano intorno al Battistero.

“Guido, tu rifiuti d’essere di nostra brigata”

Betto Brunelleschi e i suoi compagni, appena lo avevano visto da solo e così assorto nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni, non ci avevano pensato due volte: spronati i cavalli lo avevano raggiunto e lo avevano circondato per “dargli briga”. Un vero e proprio assalto. “Guido, tu rifiuti d’essere di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?”. Come dire: a cosa serve stare a ragionare sull’esistenza di Dio e su altre astrattezze del genere? Allora Guido rispose: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. E facendosi leva su una delle arche che stava fino a poco prima ammirando, saltò oltre quei molestatori e se ne andò.

“Gli smemorati siete voi”

Boccaccio ci racconta che la brigata ci mise non poco a capire che cosa Cavalcanti avesse voluto dire con quelle parole, finché proprio Betto capì: “Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso; queste arche sono le case de’ morti, le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti”.

Non troppa nostalgia dunque: gli ignoranti e i perdigiorno esistevano anche nei bei tempi andati.