Impenetrabili torri d’argento VIII
Grenoble? No, Stendhal!
Nel 1817 Marie-Henri Beyle pubblicò un diario di viaggio, nel quale descriveva le sue impressioni riguardo l’Italia e gli italiani: l’autore francese, nato a Grenoble trentaquattro anni prima, decise di firmare la sua opera con lo pseudonimo di Stendhal: da quel momento avrebbe pubblicato con quel nome tutte le sue opere divenendo da lì a poco notissimo a tutti i lettori d’Europa. Stendhal (in realtà il nome di una cittadina tedesca della Sassonia) è l’autore di alcuni fra i più celebri romanzi del primo Ottocento europeo, ancora oggi fra i classici più venduti e letti al mondo: ‘Il rosso e il nero’, ‘La badessa di Castro’, ‘La Certosa di Parma’.
Stendhal o Milano?
Non ancora Stendhal, Marie-Henri Beyle non si era guadagnato una fama di scrittore pari a quella che avrebbe acquistato entro pochi anni: forse troppo impegnato al servizio di Napoleone, aveva pubblicato soltanto alcune biografie di compositori e una ‘Storia della pittura in Italia’. Per la nostra penisola aveva nutrito fin da subito un’attrazione fatale: Milano, dove visse stabilmente dal 1814 al 1821, dopo la caduta di Bonaparte e il congedo dall’esercito francese, divenne per lui una vera e propria seconda patria, tanto che – lui stesso lo dispose – sulla sua tomba si sarebbe dovuto scrivere “Arrigo Beyle milanese”.
‘Roma, Napoli e Firenze’, 1817
Ma nel diario di viaggio del 1817, Stendhal non decise di occuparsi della sua Milano: ‘Roma, Napoli e Firenze’, questo è il titolo che dette al suo resoconto, nel quale tratteggiò, spesso anche polemicamente, l’immagine di un’Italia centro-meridionale troppo impastata nei suoi malcostumi per essere protagonista di un riscatto civile e sociale degno – a suo parere – dell’ormai perduta occasione napoleonica.
Viltà, miseria e cavoli marci
Della buona società napoletana il francese criticò lo sciocco e cieco orgoglio campanilistico, accusando che “a Napoli, come in Spagna, la buona società sta ad una distanza immensa dalle classi basse, e, diversamente dal popolo spagnolo, il popolino napoletano, corrotto dal clima troppo mite, non si batte”. Nelle pagine del suo diario il mito di Roma veniva abbassato alla cruda realtà della miseria moderna: “Regna per le strade di Roma un tanfo di cavoli marci. Attraverso le belle finestre dei palazzi del Corso si scorge la povertà degli interni”. Solo per fare qualche esempio.
“Follie per amore”, no grazie…
Innamorato delle donne e della bella vita, amante appassionato, Stendhal fu sempre sensibile al fascino femminile che incontrava durante i suoi viaggi: non gli sfuggì dunque la bellezza delle donne fiorentine, dei loro occhi “così vivaci e penetranti”. Ma in quegli stessi occhi colse anche una ritrosia e un’altezzosità tutte fiorentine, plasmate da secoli di orgogliosa consapevolezza del proprio valore: le donne di Firenze non avrebbero mai compiuto “follie per amore”. Non che il seduttore ne risultasse raffreddato, anzi, forse ne era stuzzicato ancor più: “Quello che non troverete mai è l’aria esaltabile, ma in compenso, spirito, fierezza, ragione, qualcosa di finemente provocante…”.
“Camminavo temendo di cadere”
Ma a proposito di Firenze, nelle pagine del suo ‘Roma, Napoli e Firenze’, Stendhal descrisse un’esperienza che sarebbe divenuta ben più famosa dei suoi giudizi sullo spirito femmineo fiorentino: “Ero già in una sorta di estasi all’idea di trovarmi a Firenze. Assorbito nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, la toccavo per così dire. Ero giunto a quel livello di emozione, dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un tuffo al cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
La Sindrome di Stendhal
Con queste parole veniva descritta per la prima volta la ‘Sindrome di Stendhal’, un disturbo psicosomatico che può realmente colpire chi, davanti ad opere d’arte verso le quali si sia già proiettata una buona dose di aspettativa e di ammirazione, è colto da panico, percezioni deliranti e allucinazioni che possono tendere o all’euforia o ad un senso depressivo, a seconda dei casi.
Nel 1979 proprio una psichiatra fiorentina, Graziella Magherini, studiò e descrisse più di cento casi di turisti che a Firenze erano stati colpiti da una forma del disturbo che aveva colto Stendhal, all’uscita da Santa Croce, durante la sua prima visita alla basilica. Una bellezza eccessiva, quella di Firenze, conturbante e folgorante, simile a quella che gli antichi Greci riconoscevano agli dèi: gli umani non potevano sopravvivere alla vista del loro splendore folgorante.
“Troppo bello per essere vero”
Ma, come per quasi tutte le esperienze umane, l’educazione gioca un peso ben più potente di quanto si voglia troppo spesso ammettere. Non si può in fondo essere veramente colpiti dalla bellezza del David o dall’armonia di Palazzo Vecchio o dalla stratificazione densissima di storia e di cultura sulle pareti e nei monumenti di Santa Croce, se non si riconosce un valore, storico o affettivo o educativo, a ciò che tutto questo rappresenta.
Twain o Stendhal? Questo è il problema
Una cinquantina di anni dopo Stendhal, un altro straniero visitò più o meno gli stessi luoghi della ben poco diversa città di Firenze. Il suo (pseudo-)nome era Mark Twain (Leggi anche La cupola di Brunelleschi può assomigliare ad un’enorme mongolfiera?). Dopo aver visitato gli Uffizi, lo scrittore americano scriveva: “Si può percorrere un miglio di gallerie d’arte e fissare stupidamente orribili, antichi incubi, fatti con il nerofumo della candela, prestare orecchio agli estatici encomi delle guide e tentare di trovare un certo entusiasmo, che però non arriva – e senti nient’altro che un leggero fremito quando nell’orecchio ti cadono i nomi, i grandi nomi degli antichi re dell’arte- nient’altro”.
Alcuni l’hanno chiamato ‘Malessere di Twain’, in opposizione alla ‘Sindrome di Stendhal’. Sarebbe interessante indagare da quale di questi due disturbi siano più colpite le folle di turisti che oggi riempiono le strade della nostra Firenze.