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Lorenzo di Piero de’ Medici (1449 – 1492), noto anche come Lorenzo il Magnifico, è un’icona di Firenze e del Rinascimento italiano nel mondo, una figura che ha incuriosito gli storici e i politologi, che ha ispirato artisti di tutto il mondo e continua ad affascinare. Signore di Firenze dal 1469 alla morte, ha incarnato al meglio l’ideale del principe umanista rinascimentale, gestendo il potere in modo abilissimo, e non solo. È stato un ineguagliabile politico e al contempo anche un prodigo mecenate, un poeta e un brillante scrittore. Le cronache lo descrivono come un uomo non particolarmente bello, alto e robusto, che aveva capelli scuri e un colorito olivastro, il viso incavato, due grandi occhi rotondi, il naso camuso e una mascella particolarmente pronunciata. A stupire erano soprattutto la sua incommensurabile intelligenza, la sua educazione raffinatissima, la sua abilità diplomatica, il suo spirito concreto e pragmatico, ma al contempo votato alla poesia e alla ricerca della bellezza in ogni cosa. Si era circondato di artisti di ogni tipo, poeti, pittori e letterati, trasformando Firenze in uno dei centri artistici più ricchi e prolifici di sempre.

 

La sua vocazione all’arte si rifletteva nella sua dedizione alla bellezza in ogni forma, tutto alla corte del Magnifico doveva mirare alla magnificenza e all’armonia, e le scelte gastronomiche del Signore non erano da meno. Lorenzo de’ Medici era un grande amante della buona tavola, un fine esperto di cucina e un raffinato intenditore di vini. Il suo interesse per i piaceri della tavola è testimoniato da diverse fonti. Bartolomeo Sacchi, noto come il Platina, membro dell’Accademia platonica presieduta da Lorenzo il Magnifico aveva scritto un’opera sui piaceri della tavola, intitolata De honesta voluptate et valitudine, un vero e proprio trattato di gastronomia del Quattrocento, che si proponeva non solo di tramandare ricette, ma di esplorare “il gusto del mangiare, la selezione dei cibi, il tempo del consumo, le tecniche di preparazione”. Alcuni critici hanno parlato di un vero e proprio “umanesimo gastronomico”, di una nuova visione della cucina in analogia con l’armonia del Creato e con una nuova concezione dell’essere umano.

Lorenzo de’ Medici però non si dilettava solo con la teoria, era un uomo estremamente pratico, che amava dedicarsi in prima persona alle attività da “uomo semplice”. Aveva fatto edificare una fattoria nei pressi della sua villa di Prato per dedicarsi all’allevamento di animali come conigli, pavoni, daini e giraffe. Si occupava in prima persona anche all’allevamento di bachi da seta e all’apicoltura, producendo seta e dell’ottimo miele. Si era interessato anche alla produzione del formaggio e alla coltivazione del riso, alimento ancora poco diffuso nell’Italia dell’epoca.

Il suo amore per la sperimentazione gastronomica si rifletteva nelle grandi tavolate della sua corte, nei banchetti sontuosi che incantavano i suoi ospiti. Mangiare al desco dei Medici doveva essere un’esperienza indimenticabile per gli invitati, che si trovavano di fronte un vero e proprio spettacolo per i sensi, un tripudio di carni, combinazioni delle verdure più varie e inusuali e una raffinatissima pasticceria, il tutto innaffiato da ottimi vini. Oltre agli arrosti e ai bolliti, in quel periodo si era diffusa l’usanza di mangiare torte e pasticci in crosta, si cucinavano nei modi più disparati frattaglie e interiora, accompagnandole spesso con salse. Prendeva sempre più piede l’utilizzo del latte e dei suoi derivati come burro e panna. Comparivano a tavola spezie come lo zenzero e lo zafferano, la cacciagione spesso veniva condita con la cannella, la noce moscata, il coriandolo e i chiodi di garofano. Si predilige molto l’abbinamento del dolce con il salato, apprezzatissima era ad esempio l’anatra in salsa di prugne. Si condiva la carne con il melangolo, creando una salsa di arance amare, con la mostarda e la cotognata. Si mangiava anche il panunto, ovvero pane unto nel burro coperto da formaggio e spolverato poi di cannella di zucchero, all’epoca detto anche “polvere di Cipro”, una prelibatezza per pochi, che con i suoi dolci cristalli rappresentava un vero e proprio status symbol. Tra i dolci spiccano la torta di riso e altre pietanze dall’abbinamento molto particolare per il gusto odierno, come ad esempio una torta alla crema di melone, che vede la polpa del frutto amalgamata con uova, formaggio fresco e stagionato, cannella, chiodi di garofano e zucchero.

Durante questi banchetti si potevano incontrare papi, dame, ricchi mercanti, diplomatici e gran signori da ogni parte del mondo. Vigeva una precisa etichetta, già ai tempi il galateo imponeva di non parlare con la bocca piena, di non emettere “suoni fastidiosi” e di pulirsi bene la bocca prima di bere, perché all’epoca vigeva l’uso di bere in più ospiti dalla stessa coppa. Raccomandabile era anche indossare un bel vestito, soprattutto per le dame, poiché era richiesto un abito consono ad un ambiente raffinatissimo e lussuoso. Ambiente che spesso veniva allestito da artisti e artigiani proprio per il l’occasione, per un banchetto che doveva essere unico nel suo genere e che non di rado aveva un tema specifico. Alla tavola del Magnifico non ci si annoiava mai e una volta terminati i lauti pasti alla corte dei Medici gli ospiti venivano allietati con musiche, danze e giochi. Lorenzo de Medici era molto versato nel gioco, al punto di inventare in prima persona nuovi giochi di carte che riscossero grande successo all’epoca. Questi banchetti erano grande occasione di svago e di socialità per la nobiltà rinascimentale, ma anche luoghi in cui si prendevano decisioni politiche cruciali per il destino dei più importanti avvenimenti del periodo.

Il cibo che il Signore di Firenze amava non era solo quello della sua raffinatissima corte fiorentina. La sua vocazione alla vita da “uomo semplice” si rispecchiava anche nelle sue scelte alimentari più quotidiane. Amava la cucina toscana tutta, persino quella da osteria, tanto da elencare nelle sue opere letterarie alcune di quelle che erano le sue pietanze preferite: la schiacciata, il castagnaccio e il migliaccio. Amava anche il pecorino, le fave arrostite, le cosce di rana e cibi saporiti come le aringhe, la pancetta e le salsicce. Era solito accompagnare i suoi pasti con del buon Chianti. In una delle sue poesie trascriverà addirittura la ricetta per preparare i cialdoni, il dolce toscano da lui prediletto: «Metti nel vaso acqua e farina, quando hai menato, poi vi si getta quel ch’è dolce e bianco zucchero: fatto l’intriso, poi col dito assaggia, se ti par buono ponilo in ferri scaldati e al fuoco ponili … quando senti frigger, tieni i ferri stretti. Quando ti par sia fatto abbastanza, apri le forme e cavane è cialdoni… e ‘n panno bianco li riponi». Prendete nota e ricordate che, come il Nostro ci insegna, la felicità passa anche per la tavola e «chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza».