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La guerra devasta la Siria ma non spegne lo spirito dei monaci e monache carmelitane, pronte a mettere a rischio la propria vita per i rifugiati. Maria Luisa Forenza, regista del film “Mother Fortress” ha concesso un’intervista a Sei di Firenze se.

Come nasce questo film?

“Per puro caso. Mi trovavo a San Francisco, sono stata lì per circa tre anni. Era il novembre del 2013 e lì incontrai la madre. Lei non poteva più rientrare al monastero perché i terroristi lo stavano attaccando. I monaci e le monache dovevano rifugiarsi nei cunicoli. Lei fu invitata a San Francisco da una associazione per la pace e partecipò ad una serie di conferenze nelle quali raccontava la guerra in Siria. Nel 2014 lei ci annunciò con tanto di mappe e foto che stava per nascere lo Stato Islamico”.

A San Francisco il cinema indipendente va per la maggiore. Se sei un filmaker devi saper far tutto: in questo clima lì ho fatto esperienza di tutto. Ho comprato una canon, e per imitazione ho iniziato. In precedenza mi ero occupata di temi sociali e quindi avevo un po’ di esperienza sul campo. Grazie alla madre ho conosciuto i monaci del monastero, una comunità internazionale, alcuni laureati in media e giornalismo. Erano molto interessanti dal punto di vista umano, mi hanno invitato e sono andata”.

Scelta difficile quella di produrre da sola il film, specie in una zona di guerra.

“È stato faticosissimo però il passaggio di San Francisco mi ha aiutato perché ho provato da sola a fare tutto, al contrario di quanto fatto sempre in Italia. È stato uno stimolo: ho provato e fatto tutto da me. Il film è autoprodotto. Solo da poco è entrata la RAI”.

Il nemico.

“Queste etichette quando si arriva sul campo, sul teatro del conflitto perdono senso. Io non ho fatto la giornalista, non ho fatto inchiesta. La mia chiave narrativa era estetica ed è l’estetica che parla. Le persone venivano per parlare. Da italiana è stato anche più semplice. Noi siamo molto amati nel mondo e anche lì. Loro volevano raccontarsi. Certe volte l’informazione non riesce a catturare le sfumature”.

Non è facile raccontare la guerra, specie quella in Siria.

“Mi sono occupata di guerra anche in passato, come documentari. È un tema che ho seguito quindi però ho appreso delle cooordinate. Ciò che ho colto subito è che oggi è difficile raccontarla perché è una guerra complicata. Ci è passato di tutto lì e non sono Isis. Una guerra che ha visto cambiare gli equilibri, nella quale rientrano diversi soggetti. Quando sono andata in questo monastero, nel quale tutti erano abbastanza giovani, che avevano lasciato i loro paesi spinti dalla vocazione. Uno di questi, quello proveniente dal Colorado che compare nel film, laureato a Princeton, fece un viaggio e rimase folgorato da questo luogo. Nel suo viaggio incontrò un altro ragazzo, belga, laureato in media e giornalismo. In Siria si sente forte il Cristianesimo. Fin da subito ho scelto di non raccontare la guerra ma l’identità cristiana e loro erano un documento vivente, di forza, di serenità, di compartecipazione. Quando è iniziata la devastazione loro hanno aiutato tutti”.